Il 17 maggio 2017 la proposta di legge contro il cyberbullismo è stata approvata all’unanimità alla Camera ed è diventata legge dello stato italiano. La presidente della Camera Laura Boldrini ha affermato che questo documento rappresenta un primo doveroso passo del Parlamento per contrastare il fenomeno e lo ha dedicato a Carolina Picchio, la ragazza di appena 14 anni morta suicida nel gennaio 2013 dopo la diffusione in rete di un video a sfondo sessuale che la vedeva come protagonista.
La legge fornisce una chiara definizione del cyberbullismo ed esplicita il coinvolgimento del MIUR e delle scuole per predisporre linee di orientamento di prevenzione e contrasto al fenomeno.
Ancora una volta, come per altri temi, l’educazione alla legalità e all’uso consapevole di internet è demandata agli insegnanti e agli istituti scolastici. Certamente la scuola può rivestire un ruolo importante nella prevenzione, ma i primi responsabili rimangono i genitori che hanno il dovere di farsi garanti nella protezione e supervisione dei propri figli sul modo di utilizzare la rete, anche perché gran parte del tempo passato a chattare o a navigare avviene all’interno delle mura domestiche.
Come primi formatori, noi genitori dobbiamo decidere quale posizione educativa tenere e come intervenire per fornire ai ragazzi le competenze necessarie a prevenire i rischi connessi all’uso della rete. Credo che una prima manovra importante sia monitorare l’accesso alla navigazione (esistono dei dispositivi che permettono di controllare quali siti vengono visitati) e fornire regole chiare sui tempi di esposizione. Pur contestandoci infatti, i nostri figli non ci perdono mai di vista e hanno bisogno di trovare in noi persone credibili, competenti, autorevoli e affidabili. Questo significa che dobbiamo essere coerenti, attenerci anche noi ad un uso altrettanto responsabile di internet e soprattutto essere aggiornati, per condividere con loro un linguaggio comune.
Ritornando al caso di Carolina Picchio e di tanti altri dopo di lei, è doveroso interrogarci sul modo in cui la tecnologia sta influenzando le relazioni sociali e soprattutto l’accesso alla sessualità. Ufficialmente la rete ha sdoganato l’eros dal territorio di negazione, paura e repressione in cui le generazioni passate l’avevano confinato: tutto oggi è fluido, possibile, accessibile, normalizzato. Ma siamo sicuri che il fatto di parlarne di più significhi aver raggiunto la sospirata libertà sessuale? La normalizzazione di certi comportamenti porta automaticamente a riflettere o a essere consapevoli di ciò che si desidera davvero? Non potrebbe trasformarsi invece in nuove forme di condizionamento (qualcuno lo ha definito porno-conformismo) tali da indurre i ragazzi a credere che chi non aderisce a certe condotte viene etichettato come “sfigato”? Il report di Telefono azzurro ed Eurispes (2013) parla chiaro: 1 ragazzo su 10 condivide foto intime sulla rete e tra i ragazzi intervistati 1 su 4 risponde che lo fa perché richiesto dal proprio ragazzo: una violenza sottile, una pressione e un condizionamento pesante, che ricade soprattutto sul genere femminile. Il sexting, la produzione e la condivisione sul web di video sessualmente espliciti, oltre ad amplificare il desiderio di esibizionismo e la ricerca del consenso tipici dell’adolescente, fa emergere lo svilimento e la banalizzazione attuale della dimensione sessuale della persona, lo smarrimento del valore della sessualità come espressione profonda dell’essere umano. Ridotta la sessualità a prodezza tecnica, i ragazzi imparano che bisogna essere performanti per realizzarsi nel godimento proprio e altrui.
La domanda da porsi è allora: quale tipo di educazione affettivo-sessuale consegniamo ai nostri figli per metterli in grado di difendersi o perlomeno riconoscere i rischi, le proposte pericolose, le relazioni potenzialmente morbose? Forse nessuna. Ma il silenzio sulla sessualità che ha caratterizzato il rapporto genitori-figli nel passato oggi è troppo rischioso, perché se non siamo noi a parlarne con loro, l’unica voce che sentiranno sarà quella di chi in rete o nelle chat li influenza e, nel peggiore dei casi, li induce a cedere alle facili lusinghe del consenso virtuale. Chi gli parla della ricchezza della differenza fisica tra uomo e donna, della preziosità e vulnerabilità del loro corpo, della bellezza della sessualità come dimensione che pulsa e si fa sentire, ma che ha bisogno di essere integrata in un progetto di vita, considerata come strumento di realizzazione dei propri bisogni emotivi e di relazione? Dobbiamo ritrovare fiducia in noi stessi come educatori dei nostri ragazzi e, per non sentirci soli e senza risorse di fronte a un argomento così complesso, informiamoci, confrontiamoci con altri adulti, specialisti, esperti perché su questi temi è vero che manca del tutto una formazione. Un valido percorso, collaudato e diffuso in più di 40 paesi è il TeenSTAR che rivolge progetti di educazione affettivo-sessuale ai ragazzi nelle scuole, ma offre incontri di sostegno e formazione anche agli adulti.
I tempi ci impongono di rimanere vigili, chiediamoci: quale progetto di educazione sessuale abbiamo sviluppato o siamo disposti ad accogliere nella nostra famiglia? Quali attività eventualmente vengono proposte in questo ambito dagli istituti scolastici frequentati dai nostri figli? Sono condivisibili secondo la nostra visione? C’è un grosso lavoro educativo da fare e un grosso lavoro su noi stessi, ma come dice David Finkelhor, studioso dei comportamenti on-line di migliaia di adolescenti e dei reati sessuali su minori attraverso il web, il più importante strumento di prevenzione è la nostra capacità di proporci come educatori validi e coerenti.